Vangelo di Gesù Cristo secondo San Luca
A quel tempo,
ad alcuni che erano convinti di essere giusti
e che disprezzava gli altri,
Gesù raccontò questa parabola:
“Due uomini salirono al tempio per pregare.
Uno era un fariseo,
e l'altro, un pubblicano (cioè un esattore delle tasse).
Il fariseo, stando in piedi, pregava tra sé:
'Mio Dio, ti ringrazio
perché non sono come gli altri uomini
– sono ladri, ingiusti, adulteri –,
o come questo pubblicano.
Digiuno due volte a settimana
e pago un decimo di tutto quello che guadagno.'
Il pubblicano stava a distanza
e non osava neppure alzare gli occhi al cielo;
ma egli si batteva il petto, dicendo:
«Mio Dio, sii propizio al peccatore che sono!»
Vi dichiaro:
quando quest'ultimo tornò a casa sua,
fu lui a diventare un uomo giusto,
piuttosto che l'altro.
Chi si esalta sarà umiliato;
chi si umilia sarà esaltato.
– Acclamiamo la Parola di Dio.
Scendere per elevarsi trasforma la preghiera attraverso l'umiltà autentica
Come la parabola del fariseo e del pubblicano rivela il cammino paradossale verso la giustificazione e rinnova il nostro rapporto con Dio.
Spesso preghiamo contando i nostri meriti anziché riconoscere la nostra povertà. La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) capovolge questa logica apparentemente sensata: chi sale al Tempio ostentando le sue virtù ne scende immutato, mentre il peccatore che si batte il petto diventa giusto. Queste parole di Gesù capovolgono la nostra comprensione della preghiera, della giustizia divina e del cammino spirituale, offrendo una chiave per vivere autenticamente davanti a Dio.
Il filo conduttore della nostra esplorazione
Scopriremo come questa breve parabola ponga l'umiltà al centro della giustificazione, sveleremo gli atteggiamenti contrastanti dei due leader della preghiera e ne esploreremo poi le applicazioni concrete nella nostra vita quotidiana. Approfondiremo poi le risonanze nella tradizione spirituale prima di proporre una pratica meditativa e affrontare le sfide contemporanee. Una preghiera liturgica e punti di riferimento pratici concluderanno il nostro viaggio.

Contesto: Una parabola per correggere l'illusione spirituale
Luca colloca questa parabola nell'ultima ascesa di Gesù a Gerusalemme, tra l'insegnamento sulla perseveranza nella preghiera e l'accoglienza dei bambini. Il contesto è preciso: Gesù si rivolge ad "alcuni che erano convinti della propria giustizia e disprezzavano gli altri". Questa precisione letteraria non è insignificante. Luca prende di mira un pericoloso atteggiamento spirituale che minaccia tutti i credenti: la certezza della propria giustizia unita al disprezzo per gli altri.
La struttura narrativa è attentamente costruita. Due uomini salgono al Tempio di Gerusalemme per pregare. Il primo, un fariseo, rappresenta l'élite religiosa rispettata per la sua scrupolosa osservanza della Legge. Il secondo, un pubblicano, esattore delle tasse per l'occupante romano, incarna l'odiato collaboratore, considerato un peccatore pubblico e impuro. L'opposizione è massima: purezza contro impurità, osservanza contro trasgressione, onore contro vergogna.
La preghiera del fariseo illustra perfettamente l'illusione che sta denunciando. La sua gratitudine a Dio maschera l'autocompiacimento: "Non sono come gli altri uomini". Elenca le sue pratiche che vanno oltre i requisiti legali: digiunare due volte a settimana invece dei digiuni prescritti, pagare la decima su tutto il suo reddito. La sua postura fisica – in piedi – e il suo sguardo interiore – "pregava dentro di sé" – rivelano una preghiera che non abbandona mai veramente se stessa. Si confronta, si misura, si distingue.
Il pubblicano adotta una postura radicalmente diversa. Sta "a distanza", probabilmente nei cortili esterni riservati ai meno puri. Non osa alzare gli occhi al cielo, un gesto consueto nella preghiera ebraica. Si batte il petto, un segno di profonda contrizione raramente menzionato nella Scrittura. La sua preghiera è racchiusa in otto parole greche: "Dio mio, abbi pietà di me peccatore". Nessun paragone, nessuna giustificazione, solo il nudo appello alla misericordia divina.
Il verdetto di Gesù cade, paradossale e definitivo: è il pubblicano che scende “giustificato” (forma passiva del verbo greco dikaioō, per essere resi giusti da Dio). Il fariseo, nonostante le sue opere autentiche, rimane immutato. La frase finale enuncia il principio generale: "Chi si esalta sarà umiliato; chi si umilia sarà esaltato". Questa legge del Regno inverte la logica mondana e religiosa del merito accumulato.

Analisi: La giustificazione come dono ricevuto nella verità
Il cuore teologico di questa parabola risiede nella natura stessa della giustificazione divina. Gesù non critica le pratiche religiose del fariseo – il digiuno e la decima sono legittimi e lodevoli. Rivela l'atteggiamento interiore che trasforma questi atti in ostacoli: la pretesa di autocompiacimento e il corrispondente disprezzo per gli altri.
La giustificazione, nel pensiero biblico ripreso da Paolo, designa l'azione di Dio che rende giusto il peccatore, non per i suoi meriti, ma per grazia. Il pubblicano comprende intuitivamente questa verità. La sua preghiera non invoca attenuanti, non invoca alcun merito nascosto. Si presenta così com'è: un peccatore bisognoso di misericordia. Questa verità radicale su se stesso apre lo spazio in cui Dio può agire.
Il fariseo, d'altra parte, chiude questo spazio. La sua preghiera rimane intrappolata nel circuito chiuso dell'ego. Paragonandosi agli altri – "Io non sono come loro" – fonda la sua rettitudine sulla differenza, e quindi sul giudizio altrui. La sua stessa gratitudine diventa una sottile affermazione di superiorità. Ringrazia Dio per essere diverso, migliore, più attento. Questo atteggiamento rivela un malinteso fondamentale: la rettitudine non si misura, si riceve.
L'espressione "divenne giusto" (greco dedikaiōmenos) usa un participio perfetto passivo, indicando un'azione divina compiuta con effetto permanente. Non è il pubblicano che si giustifica con la sua umiltà – ciò significherebbe ricadere nella logica meritoria. È Dio che giustifica chi riconosce umilmente la sua condizione. L'umiltà non è una virtù da contare, ma la disposizione che permette di accogliere il dono.
Questa dinamica è coerente con l'insegnamento di Paolo sulla giustificazione per fede: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché noi diventassimo giustizia di Dio per mezzo di lui» (2 Cor 5,21). La giustizia cristiana è partecipazione alla giustizia di Cristo, non accumulo di meriti personali. Presuppone il previo riconoscimento della nostra incapacità di salvarci da soli.
I due volti della preghiera, i due cammini spirituali
La parabola mette a confronto due concezioni radicalmente diverse della preghiera e, per estensione, del cammino spirituale. Comprendere questa opposizione fa luce sulle nostre pratiche e sui nostri atteggiamenti.
La preghiera del fariseo illustra quella che potremmo chiamare "preghiera performativa": enuncia i risultati ottenuti per congratularsi con se stessi. Il fariseo si reca al Tempio non per incontrare Dio, ma per rassicurarsi del proprio valore morale. La sua preghiera funziona come uno specchio in cui contemplare il proprio riflesso virtuoso. L'"io" domina: "Ti rendo grazie", "Non sono", "Digiuno", "Verso". Questa moltiplicazione del pronome rivela il vero centro di gravità: non Dio, ma l'io e i suoi risultati.
Ancora più sottile, questo fariseo prega “tra sé” (pro heauton), espressione ambigua che significa sia "fuori da sé" sia "per sé". I due significati convergono: la sua preghiera rimane interiore, ripiegata sul proprio giudizio. Non si rivolge mai veramente all'Altro, non si espone allo sguardo divino che scruta i cuori. È una preghiera senza rischi, senza vulnerabilità, dove tutto è controllato e padroneggiato.
La preghiera del pubblicano, invece, incarna la "preghiera di abbandono": rinuncia a ogni controllo in favore della misericordia. Il pubblicano non è in piedi, ma probabilmente è curvo, schiacciato dal peso della sua colpa. Non alza gli occhi, gesto consueto della preghiera, come se la vergogna glielo impedisse. Si batte il petto, segno di dolore interiore e di pentimento viscerale. Tutto il suo corpo parla davanti alle sue labbra.
La sua breve invocazione – “Mio Dio, abbi pietà del peccatore che sono” – usa il verbo hilaskomai (essere propizio, perdonare) legato al rituale dello Yom Kippur dove il sommo sacerdote aspergeva il propiziatorio (hilastērion) del sangue espiatorio. Il pubblicano non invoca i suoi meriti, ma chiede l'espiazione rituale, riconoscendo implicitamente che solo Dio può purificare. L'articolo determinativo "il peccatore" (tō hamartōlō) suggerisce che egli si identifica totalmente con la sua condizione peccaminosa, senza distanza o scuse.
Queste due preghiere rivelano due percorsi spirituali. Il primo cerca l'elevazione attraverso l'accumulo di virtù e la distinzione dai peccatori. È il percorso della separazione, della purezza raggiunta, della giustizia costruita. Il secondo accetta la discesa, lo spogliamento e la povertà radicale davanti a Dio. È il percorso dell'unione nel riconoscimento della nostra comune umanità ferita. Paradossalmente, è la discesa che eleva, la povertà che arricchisce e l'umiliazione che giustifica.
Il disprezzo come sintomo di illusione spirituale
Luca sottolinea che Gesù si riferisce ad "alcuni che disprezzavano gli altri". Disprezzo (exouthenountes) non è un difetto secondario, ma il sintomo di una profonda patologia spirituale. Analizzare questo disprezzo fa luce sulle radici dell'illusione denunciata.
Il disprezzo spirituale nasce da una duplice percezione errata. In primo luogo, confonde la santità con la separazione. Il fariseo crede che la sua giustizia lo isoli dai peccatori, lo ponga al di sopra di loro. Dimentica che la santità biblica non è isolamento, ma consacrazione, essere separati. Per per servire, no contro altri. In secondo luogo, ignora che ogni giustizia umana rimane relativa e imperfetta di fronte all'assoluto divino. Come scriverà Paolo: "Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm 3,23). La linea di demarcazione non passa tra giusti e peccatori, ma attraversa ogni cuore umano.
Il disprezzo funziona anche come meccanismo di difesa psicologica. Proiettando la colpa sugli altri – "ladri, ingiusti, adulteri" – il fariseo si protegge dal riconoscimento della propria ombra. I peccati che elenca sono proprio quelli che deve reprimere per mantenere la sua immagine di giusto. La sua preghiera diventa così un tentativo inconscio di allontanare i propri demoni attraverso la proiezione.
Questo disprezzo contamina anche la preghiera stessa. Invece di essere un dialogo d'amore con Dio, diventa un tribunale in cui giudicare gli altri. Il fariseo non prega. Per i peccatori ma contro loro, usando la loro presunta indegnità come un vessillo per la propria virtù. Questa strumentalizzazione degli altri tradisce una visione puramente comparativa e competitiva della vita spirituale: io sono buono perché loro sono cattivi, io sono salvato perché loro sono perduti.
L'atteggiamento del pubblicano è in netto contrasto. Non paragona, non giudica, non menziona nemmeno gli altri. La sua preghiera è una pura relazione verticale con Dio. Questa assenza di paragoni rivela un'autentica umiltà: l'umile non si misura con gli altri o con se stesso; si accetta così com'è sotto lo sguardo di Dio. Il pubblicano non ha bisogno di disprezzare per esistere; esiste nella nuda verità della sua condizione davanti a Colui che solo può salvare.
Questa analisi del disprezzo riecheggia l'insegnamento di Gesù sul giudizio: "Non giudicate, per non essere giudicati" (Mt 7,1). Non che ogni valutazione morale sia proibita, ma il giudizio che condanna, esclude e disprezza usurpa la prerogativa divina. Solo Dio conosce i cuori; solo Lui può giudicare con verità e misericordia. Il nostro compito non è giudicare gli altri, ma vegliare sui nostri cuori e pregare per tutti.

Elevazione attraverso l'abbassamento, paradosso del Regno
La frase finale di Gesù – "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato" – enuncia un principio fondamentale del Regno di Dio. Questo paradosso percorre tutto il Vangelo e rivela una logica divina che capovolge gli standard mondani di grandezza e successo.
L'umiliazione di cui parla Gesù non è una calcolata falsa modestia o un masochismo spirituale. È il riconoscimento sereno e sereno della nostra verità: siamo creature finite e peccaminose, radicalmente dipendenti da Dio per la nostra esistenza e salvezza. Questo riconoscimento non è degradante, ma liberatorio. Ci libera dall'estenuante obbligo di giustificarci, di costruire la nostra salvezza, di dimostrare il nostro valore.
Il pubblicano incarna questa autentica umiliazione. Non gioca all'umiltà, la vive. La sua postura corporea – distanza, occhi bassi, petto percosso – esprime una vera umiliazione di fronte al peso del suo peccato. Eppure, questa umiliazione non è disperazione, ma un grido: "Mio Dio". Crede ancora di potersi rivolgere a Dio, spera ancora nella Sua misericordia. La sua umiliazione è quindi pervasa da fede e speranza.
L'elevazione di Dio non avviene nonostante questa umiliazione, ma attraverso di essa. È proprio perché il pubblicano si riconosce peccatore che Dio può giustificarlo. L'umiltà crea il vuoto in cui può dispiegarsi la grazia. Come scriverà Maria nel Magnificat: «Egli rovescia i potenti dai troni ed esalta gli umili» (Lc 1,52). La logica divina inverte le gerarchie umane non per arbitrarietà, ma perché solo gli umili accolgono il dono.
Questo paradosso culmina nel Mistero Pasquale. Gesù stesso «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo esaltò» (Fil 2,8-9). L'umiliazione volontaria di Cristo nell'Incarnazione e nella Passione diventa la via verso la sua glorificazione e la nostra salvezza. La croce, strumento di estrema umiliazione, diventa trono di gloria e fonte di vita. Ogni cristiano è chiamato a percorrere questo cammino paradossale.
Vivere la parabola quotidianamente
Questa parabola non è solo una lezione teorica, ma una sfida pratica che trasforma la nostra vita reale. Esploriamone le applicazioni in diversi ambiti dell'esistenza.
Nella vita di preghiera personale, la parabola ci invita a esaminare le nostre motivazioni più profonde. Preghiamo per incontrare Dio o per rassicurarci del nostro valore spirituale? Le nostre preghiere enumerano i nostri meriti o mettono in luce la nostra povertà? Usiamo la preghiera per confrontarci, giudicarci o distinguerci? L'esercizio pratico consiste nel semplificare gradualmente la nostra preghiera, sfrondare le autogiustificazioni e tornare al grido semplice e nudo del pubblicano. Una preghiera di umiltà potrebbe essere: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore" – la famosa preghiera dal cuore della tradizione orientale, direttamente ispirata dalla nostra parabola.
Nella vita comunitaria ecclesiale, il pericolo farisaico è in agguato. Chi frequenta assiduamente la chiesa può sviluppare un sottile disprezzo per i "tiepidi", gli "occasionali", coloro che "non si sforzano". L'implicazione concreta: accogliere tutti dove si trovano, rallegrarsi di ogni presenza anziché lamentarsi delle assenze, riconoscere che siamo tutti mendicanti di grazia. Nelle nostre comunità parrocchiali, questo potrebbe significare: prestare particolare attenzione all'accoglienza dei nuovi arrivati, evitare circoli di "fedeli" che implicitamente escludono, valorizzare la diversità dei percorsi anziché imporre un modello unico.
Negli impegni caritatevoli e sociali, la parabola mette in guardia contro la condiscendenza. Servire i poveri con un senso di superiorità riproduce un atteggiamento di superiorità. La carità autentica riconosce la nostra comune umanità e riceve tanto quanto dona. Concretamente: ascoltare veramente coloro che aiutiamo, imparare da loro, riconoscere che forse ci evangelizzano più di quanto noi li aiutiamo. Nelle opere sociali cristiane, dare priorità alle relazioni personali rispetto alle distribuzioni anonime, creare spazi di incontro autentico piuttosto che flussi di "beneficiari".
Nella vita professionale e sociale, lo spirito di confronto e competizione spesso regna sovrano. La parabola suggerisce un'alternativa: misurare il proprio lavoro non sul confronto con gli altri, ma sulla fedeltà alla propria vocazione. In pratica: gioire autenticamente dei successi altrui, rifiutare la logica della denigrazione, coltivare la collaborazione piuttosto che la rivalità. Negli ambienti cristiani professionali, ciò implica dimostrare uno stile relazionale diverso, meno competitivo e più solidale.
Tradizione
La nostra parabola risuona profondamente con l'intera rivelazione biblica e la tradizione spirituale cristiana, formando un intreccio coerente di saggezza.
L'Antico Testamento prepara già questo capovolgimento. I Salmi cantano: «Uno spirito contrito è sacrificio gradito a Dio; un cuore affranto e umiliato, o mio Dio, tu non disprezzi» (Sal 51,19). Il profeta Isaia annuncia: «I miei occhi sono sugli umili e sugli oppressi di spirito, su coloro che tremano alla mia parola» (Is 66,2). Il libro dei Proverbi insegna: «L'orgoglio dell'uomo lo porta all'umiliazione, ma gli umili di spirito otterranno gloria» (Pr 29,23). La sapienza biblica ha sempre celebrato l'umiltà come virtù fondamentale.
San Paolo sviluppa teologicamente ciò che la nostra parabola illustra narrativamente. Il suo insegnamento sulla giustificazione per fede in Romani 3-5 segue esattamente la stessa logica: "Tutti hanno peccato... e sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione operata in Cristo Gesù" (Rm 3,23-24). La distinzione tra farisei e pubblicani diventa quella tra giustizia delle opere e giustizia della fede. Paolo stesso ha vissuto questo passaggio, lui, l'ex fariseo zelante trasformato dall'incontro con Cristo sulla via di Damasco.
I Padri della Chiesa hanno ampiamente commentato questa parabola. Sant'Agostino vi vede la condanna dell'orgoglio spirituale, radice di tutti i peccati. San Giovanni Crisostomo insiste sulla sincerità del pubblicano, modello di autentica confessione. Questi commenti patristici hanno nutrito tutta la tradizione spirituale successiva.
La spiritualità monastica, in particolare in Oriente, ha fatto dell'umiltà la virtù cardinale. La scala di San Giovanni Climaco pone l'umiltà al vertice dell'ascensione spirituale. I Padri del deserto ripetevano: "La consapevolezza del proprio peccato è più grande della resurrezione dei morti". Questa tradizione riconosce nel pubblicano il modello dell'esicasta, colui che scende nel proprio cuore per incontrare Dio nella nuda verità.
Santa Teresa di Lisieux avrebbe riformulato questa saggezza nella sua "piccola via": non fare affidamento sulle proprie virtù, ma abbandonarsi alla misericordia divina. Scrisse: "Le mie debolezze mi rallegrano perché mi danno l'opportunità di sentire la misericordia di Gesù". Il Curato d'Ars confessò: "Sono il più grande peccatore che la terra abbia mai conosciuto", non per falsa modestia, ma per autentica umiltà davanti a Dio.
Appropriarsi della preghiera del pubblicano
Per trasformare questa parabola in un percorso spirituale vivo, ecco una pratica meditativa progressiva in sette passaggi da sperimentare quotidianamente per una settimana.
Giorno 1: Lettura oranteLeggi Luca 18:9-14 ad alta voce, lentamente, tre volte. Ogni volta che leggi, concentrati su un dettaglio diverso: le posture del corpo, le parole, il verdetto finale. Prendi nota di ciò che ti tocca, ti sfida o ti turba.
Giorno 2: IdentificazioneChiediti onestamente: in che modo a volte sono il fariseo? Quando mi sono confrontato favorevolmente con gli altri? Quando ho contato i miei meriti spirituali? Nota questi momenti senza giudizio, semplicemente per vedere con chiarezza.
Giorno 3: La postura del pubblicanoDurante la preghiera, assumete fisicamente la vostra postura: state a distanza (simbolicamente ritirati), abbassate gli occhi, battetevi delicatamente il petto. Lasciate che il corpo insegni l'umiltà alla mente.
Giorno 4: La preghiera del pubblicanoRipeti lentamente, come un mantra: "Mio Dio, mostrati propizio al peccatore che sono". Lascia che questa preghiera scenda dalla mente al cuore. Ripetila dieci, venti, cento volte finché non diventa respiro spirituale.
Giorno 5: L'esame della misericordiaLa sera, rivisita la tua giornata non per contare peccati e meriti, ma per accogliere lo sguardo misericordioso di Dio sulla nostra realtà. Riconosci i tuoi difetti con fiducia, non con disperazione.
Giorno 6: Il digiuno del confrontoPer un giorno intero, astenetevi da qualsiasi paragone con gli altri, mentale o verbale. Ogni volta che sorge un paragone, notatelo e tornate alla vostra verità davanti a Dio.
Giorno 7: Il Ringraziamento rinnovatoConcludete con una vera preghiera di gratitudine, non per essere migliori degli altri, ma per i doni ricevuti, riconoscendo che provengono tutti da Dio e non appartengono solo a noi.

Sfide contemporanee
Questa antica parabola sfida il nostro mondo contemporaneo in modi sorprendenti e solleva domande legittime che richiedono risposte sfumate.
L'umiltà è compatibile con l'autoaffermazione di cui c'è bisogno oggi? La nostra cultura valorizza la fiducia in se stessi, l'affermazione personale e persino l'autopromozione professionale. L'umiltà cristiana sembra contraddire queste esigenze. In realtà, la vera umiltà non è abnegazione, ma verità su se stessi. Riconosce lucidamente i propri talenti, sapendo che sono ricevuti, non costruiti. Paradossalmente, consente una sana autoaffermazione, libera dal bisogno nevrotico di dimostrare il proprio valore. Gli umili possono osare perché non mettono a repentaglio la propria identità nel successo.
Come possiamo impedire che il riconoscimento del peccato diventi masochismo o senso di colpa tossico? Alcune letture rigorose della parabola hanno effettivamente generato spiritualità malsane, ossessionate dall'indegnità personale. La chiave sta nel movimento completo della preghiera del pubblicano: egli si riconosce peccatore. E Si rivolge a Dio. La sua confessione è piena di fiducia. L'umiltà cristiana non è mai un ripiegamento disperato, ma un'apertura fiduciosa alla misericordia. Dice "Sono peccatore" non per sopraffarsi, ma per accogliere la salvezza.
Questa parabola condanna ogni pratica religiosa regolare? Qualcuno potrebbe concludere che il digiuno, la preghiera e le offerte siano inutili o addirittura controproducenti, poiché il fariseo che le pratica viene respinto. Questa sarebbe una grave interpretazione errata. Gesù non condanna le pratiche, ma l'atteggiamento che le accompagna. Il digiuno umile e discreto che egli raccomanda altrove (Mt 6,16-18) rimane prezioso. È la pretesa di salvarsi attraverso le proprie opere e il corrispondente disprezzo per gli altri che vengono denunciati, non le opere in sé.
In che modo questa parabola si applica agli attuali dibattiti ecclesiastici? Nelle nostre chiese, la divisione tra "frequentatori abituali" e "frequentatori occasionali", "tradizionalisti" e "progressisti", "impegnati" e "consumatori" spesso riproduce una logica farisaica. Ciascuna parte può credere di essere giusta e disprezzare l'altra. La parabola ci invita a trascendere queste divisioni riconoscendo che tutti noi – conservatori e riformisti, fedeli e distanti – siamo mendicanti di misericordia. Richiede un dialogo umile piuttosto che una condanna reciproca.
L'umiltà non rischia forse di paralizzare l'azione sociale e profetica? Se mi riconosco peccatore, posso ancora denunciare le ingiustizie? La vera umiltà non impedisce la parola profetica, ma la purifica. Il profeta umile sa di non essere migliore di coloro che denuncia, di condividere la loro umanità ferita. Questa consapevolezza lo rende sia più radicale – perché non negozia con l'ingiustizia – sia più misericordioso – perché non condanna le persone. L'autentico impegno sociale cristiano unisce chiarezza morale e compassione.
Preghiera: Per diventare giusti attraverso la tua misericordia
Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato e Maestro di verità,
Ci hai insegnato che l'umiltà apre le porte del Regno
mentre l'orgoglio li chiude, anche ai più attenti.
Ti ringraziamo per questa parabola che rivela i nostri cuori
e rivela il percorso paradossale della giustificazione.
Come il fariseo, abbiamo spesso contato i nostri meriti,
abbiamo confrontato i nostri sforzi con le debolezze degli altri,
ha trasformato la nostra preghiera in un tribunale dove giudichiamo i nostri fratelli.
Ci credevamo giusti per le nostre opere,
dimenticando che ogni giustizia viene solo da Te.
Perdonaci per questa pretesa che ti ferisce e ci isola.
Come il pubblicano, insegnaci a mantenere le distanze,
non per disperazione ma per umiltà,
sapendo che siamo peccatori davanti alla Tua santità.
Dacci il coraggio di abbassare gli occhi,
per colpire il nostro petto, per invocare la tua misericordia
senza calcoli né riserve, con fiducia filiale.
Che la nostra preghiera diventi semplice e vera,
spogliato di ogni artificio e di ogni paragone,
puro rapporto d'amore tra la nostra povertà e la Tua ricchezza.
Insegnaci a non misurare più la nostra giustizia in base all'ingiustizia degli altri.
ma riceverlo da Te come un dono gratuito e immeritato.
Purifica le nostre comunità ecclesiali da ogni spirito di giudizio.
Che accogliamo tutti ovunque si trovino,
senza disprezzo per i “lontani” o orgoglio per i “praticanti”.
Rendiamo le nostre assemblee spazi dove tutti, giusti e peccatori,
si riconoscano mendicanti della Tua grazia e testimoni della Tua misericordia.
Nei nostri impegni caritatevoli e sociali,
tienici lontani da ogni condiscendenza.
Che serviamo i nostri fratelli riconoscendo la nostra comune umanità,
imparando da loro tanto quanto diamo loro,
ricevendo la loro evangelizzazione tanto quanto noi evangelizziamo loro.
Al lavoro, nelle nostre famiglie, in tutte le nostre relazioni,
liberaci dallo spirito di competizione e di confronto.
Possiamo trovare la nostra gioia non nella superiorità sugli altri
ma nella fedeltà alla Tua volontà e nel servizio del bene comune.
Signore, fa' scendere in noi questa umiltà che eleva,
questa povertà che arricchisce, questa umiliazione che giustifica.
Possiamo scendere dalle nostre preghiere trasformati ogni giorno,
non per i nostri meriti ma per la tua misericordia,
non per la nostra giustizia, ma per la tua che ci è stata donata in Gesù Cristo.
Tu che ti sei umiliato fino alla morte di croce
e che il Padre ha esaltato nella gloria,
guidaci nel tuo cammino pasquale
di umiliazione fruttuosa e di glorificazione promessa.
Amen.
Dal Tempio alla casa, dalla parabola alla vita
La parabola del fariseo e del pubblicano ci pone di fronte a un bivio cruciale. Due strade ci si aprono: quella dell'orgogliosa elevazione che conduce all'abbassamento, e quella dell'umile abbassamento che conduce all'elevazione. Le nostre scelte quotidiane determinano non solo il nostro rapporto con Dio, ma la nostra intera esistenza.
Come il pubblicano, "torniamo a casa nostra" trasformati da questa Parola. Ritornare quaggiù non è un fallimento, ma un ritorno fecondo alla vita ordinaria, portatori di una verità nuova. Il pubblicano torna a casa giustificato, cioè riconciliato con Dio, con se stesso e potenzialmente con gli altri. La sua umile preghiera nel Tempio porta ora frutto nella sua casa, nel suo lavoro, nelle sue relazioni.
Concretamente, scegliamo tre azioni immediate. Prima di tutto, adotta la preghiera del pubblicano come preghiera mattutina quotidiana, l'ancora spirituale della giornata. In secondo luogo, pratica il “digiuno comparativo” ogni giorno per una settimana, osservando come ci misuriamo costantemente con gli altri. In terzo luogo, identificare una persona che abbiamo giudicato o disprezzato e compiere un gesto concreto di riconciliazione o di apertura.
La verità liberatrice di questa parabola è che non dobbiamo costruire noi stessi, dimostrare il nostro valore, guadagnarci l'amore di Dio. Possiamo finalmente interrompere questa corsa estenuante e accogliere noi stessi, amati peccatori, giustificati non per i nostri meriti ma per pura misericordia. Questa libertà trasforma tutto: la nostra preghiera diventa dialogo amorevole, la nostra vita comunitaria diventa vera fraternità, la nostra azione nel mondo diventa servizio gioioso.
Sia il fariseo che il pubblicano abitano nei nostri cuori. Ogni giorno scegliamo chi nutrire. Che possiamo, per grazia, scegliere l'umiltà che ci apre alla vera grandezza, quella del Regno dove gli ultimi sono i primi e dove coloro che si umiliano sono esaltati da Dio stesso.
Pratico
- Preghiera quotidiana : Ripeti ogni mattina “Mio Dio, mostrati propizio al peccatore che sono”, con umiltà e cuore fiducioso.
- Nuovo esame di coscienza : La sera, rivisita la tua giornata sotto lo sguardo misericordioso di Dio, riconoscendo difetti e grazie senza paragoni con gli altri.
- Digiuno comparativo : Astenetevi per una settimana da qualsiasi confronto mentale o verbale con gli altri; osservate quanto sia difficile e liberatorio.
- Benvenuto incondizionato : Nella propria comunità parrocchiale, dare un'accoglienza particolarmente calorosa a una persona "diversa" o "distante" senza giudizio o condiscendenza.
- Gratitudine purificata :Ringraziamo Dio per i suoi doni riconoscendo che provengono da Lui, non dai nostri meriti personali o dalla nostra superiorità.
- Gesto di riconciliazione : Identifica una persona che viene giudicata o disprezzata e compi un atto concreto di apertura: messaggio, invito, richiesta di perdono.
- Lettura meditativa settimanale : Rileggete ogni domenica Lc 18,9-14, immedesimandovi successivamente nel fariseo e poi nel pubblicano, per conoscere meglio il suo cuore.
Riferimenti
Fonti primarie:
- Vangelo secondo Luca 18, 9-14 (Bibbia di Gerusalemme)
- Lettera di San Paolo ai Romani 3-5 (giustificazione per fede)
- Salmo 51 (Miserere, sacrificio gradito a Dio)
Fonti secondarie:
- Sant'Agostino, Sermoni sul Vangelo di Luca (commento patristico)
- San Giovanni Crisostomo, Omelie sulla penitenza (tradizione orientale)
- Santa Teresa di Lisieux, Storia di un'anima (piccola via dell'umiltà)
- Giovanni Climaco, La Scala Santa (Spiritualità monastica orientale)
- Benedetto XVI, Gesù di Nazareth Volume I (esegesi teologica contemporanea)



