«Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Tessalonicesi 3:7-12)

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Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi

Fratelli,

Voi sapete perfettamente come comportarvi per seguire il nostro esempio. Non abbiamo vissuto in mezzo a voi in modo disordinato; e il cibo che mangiavamo non lo ricevevamo gratuitamente. Anzi, abbiamo lavorato giorno e notte, faticando e sfinendoci per non dipendere da nessuno di voi.

Certo, avremmo potuto essere sostenuti, ma volevamo darvi l'esempio. E quando vivevamo tra voi, vi abbiamo trasmesso questa istruzione: chi rifiuta di lavorare, non mangi neppure.

Ora, sentiamo che alcuni tra voi vivono nel disordine, indaffarati e senza produrre nulla. A costoro diamo questo comando e questa esortazione nel nome del Signore Gesù Cristo: guadagnatevi il pane lavorando in silenzio.

Caro amico,

«"Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi". Ammettiamolo, questa piccola frase di San Paolo (2 Tessalonicesi 3:10) è sufficiente a metterci a disagio. Suona come un verdetto, suona dura, quasi spietata. L'abbiamo sentita tante volte, spesso brandita come un'arma per giustificare una rigida etica del lavoro, per condannare chi è "ai margini" o per santificare il rendimento. Possiamo quasi immaginare l'Apostolo come un severo caposquadra, che percorre l'officina della Chiesa con una frusta.

Ma è davvero questo che Paolo vuole dirci? Siamo forse condannati a un mero "guadagnarsi da vivere", una triste necessità per il diritto alla sopravvivenza? E se questo versetto, lungi dall'essere una condanna o uno slogan economico, fosse in realtà un invito pressante, quasi fervente, a riscoprire la profonda dignità del nostro lavoro quotidiano? E se riguardasse meno l'economia e più la spiritualità, meno la produzione e più la... pace interiore?

Questo messaggio è rivolto a voi. A voi che cercate, forse con difficoltà, di dare un senso cristiano al vostro lavoro, sia esso retribuito, domestico, volontario o persino invisibile. A voi che mettete in discussione il delicato equilibrio tra preghiera e azione, tra attesa del Cielo ed edificazione sulla terra. Immergiamoci insieme, senza paura e con amicizia, in questo passaggio impegnativo del... Seconda lettera ai TessalonicesiPotremmo benissimo trovare lì non un giudice, ma una guida e una saggezza molto più gentile e più adatta alle nostre vite frenetiche di quanto sembri.

  • Per prima cosa, descriveremo la scena: il contesto storico e teologico acceso di Salonicco, dove l'attesa del ritorno di Cristo capovolse tutto.
  • Successivamente analizzeremo il cuore del problema: il "disordine" (il«atassia) contro cui Paolo combatte, questa agitazione sterile che non è affatto la stessa cosa della pigrizia.
  • Poi, svilupperemo il messaggio di Paolo lungo tre linee principali: la dignità del lavoro come co-creazione, il pericolo dell'agitazione moderna e la vera articolazione tra carità e responsabilità.
  • Vedremo infine come la tradizione della Chiesa ha meditato su questo legame tra preghiera e lavoro, per tracciare percorsi molto concreti per la nostra vita spirituale oggi.

Pronti a smontare un cliché per trovare un tesoro? Andiamo.

Una comunità in subbuglio

Per comprendere l'affermazione di Paolo, dobbiamo assolutamente lasciare il nostro XXI secolo e atterrare a Tessalonica, intorno all'anno 51 o 52. Tessalonica è una metropoli, un importante porto commerciale brulicante di attività, la capitale della provincia romana della Macedonia. Paolo vi aveva da poco fondato una comunità cristiana (ne potete leggere nel Libro degli Atti, capitolo 17). È una comunità giovane e fervente, composta principalmente da ex pagani, che vive in un'atmosfera... diciamo, elettrica.

Perché elettrico? Perché il cuore del primo sermone di Paolo (che leggiamo nel Primo (lettera ai Tessalonicesi) era la Parusia : il ritorno glorioso e imminente del Signore Gesù. Questa non era una vaga credenza sulla fine dei tempi; per loro, si trattava di Domani. Questa attesa era la loro gioia, la loro forza, la loro speranza assoluta.

Ma questa bella speranza ebbe un effetto collaterale inaspettato, che Paolo dovette correggere nella sua secondo lettera. Alcuni membri della comunità, convinti che la fine del mondo fosse letteralmente prevista per il mattino seguente, trassero una conclusione logica per loro: "Che senso ha lavorare? Che senso ha costruire, piantare, gestire, prendersi cura degli affari di questo mondo che sta per scomparire?"«

Queste persone non erano quindi semplicemente "pigre" nel senso in cui intendiamo il termine (sprofondate su un divano semplicemente per mancanza di motivazione). Erano ciò che potremmo definire "mistici oziosi". Avevano cessato ogni attività professionale, non per pigrizia, ma perché eccesso di zelo escatologico. Pensavano di essere più spirituali degli altri perché si dedicavano esclusivamente all'attesa, alla preghiera e... ecco dove sta il problema... alle discussioni infinite.

Il risultato? Un duplice problema, che Paolo individua con grande acume psicologico e sociale.

  1. Un problema della comunità: Smettendo di lavorare, queste persone "spirituali" diventarono finanziariamente "un peso" (v. 8) per gli altri membri della comunità. Vivevano alle spalle degli carità fraterna. Ciò creò un'evidente tensione, uno squilibrio ingiusto all'interno della Chiesa nascente.
  2. Un problema spirituale e sociale: L'ozio non conduceva queste persone alla contemplazione pacifica. Al contrario, le rendeva "disordinate" (ataktos), un termine militare che significa "rompere i ranghi". E Paolo usa un brillante gioco di parole (v. 11): apprende che alcuni sono periergazomeno (occupati, occupati con tutto e niente, "ficcanaso" come direbbero gli inglesi) invece di essere ergazomeno (funzionante). Non lo fanno non hanno fatto niente, ma lo erano molto impegnato Diffondevano voci, provocavano scalpore, sollevavano dubbi, criticavano e seminavano discordia nella comunità. La loro pigrizia era diventata fonte di malcontento.

È dentro Questo Questo è un contesto molto specifico, come ricorda Paolo stesso nel suo esempio. Rileggiamo il testo che già conoscete:

«Fratelli, voi stessi sapete come imitarci. Noi non siamo stati oziosi quando eravamo tra voi, né abbiamo ricevuto gratuitamente il pane che mangiavamo, ma abbiamo lavorato notte e giorno, faticando e affaticandoci per non essere di peso ad alcuno di voi. Certo, abbiamo il diritto di essere di peso, ma abbiamo voluto darvi l'esempio, perché lo imitaste. Infatti, quando eravamo tra voi, vi davamo questa regola: »Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi». Ora sentiamo che alcuni tra voi vivono disordinatamente, indaffarati senza far nulla. A tali persone ordiniamo e li esortiamo nel Signore Gesù Cristo a guadagnarsi il pane lavorando in silenzio”. (2 Tessalonicesi 3:7-12)

La sfida di Paolo, quindi, è quella di ristabilire l'ordine, di placare questo fervore escatologico e di ricordare a tutti la propria responsabilità. Il tempo della Chiesa, il tempo tra la prima e la seconda venuta di Cristo, non è un tempo vuoto trascorso in attesa su un binario ferroviario. È un tempo pieno, un tempo per costruire, per amare e... per lavorare.

Imitazione contro il disordine

L'idea guida di Paolo non è quella di stabilire una teoria economica. Il suo obiettivo è pastorale e teologico. La parola chiave è l'antidoto al "disordine" (atassia): è l'imitazione, la mimesi.

Osservate la struttura della sua argomentazione: non parte dalla legge ("devi lavorare"), ma dalla sua testimonianza personale ("sai benissimo... cosa bisogna fare per..."). imitarci«L'autorità di Paolo non deriva da un decreto, ma dalla sua stessa vita. È una pedagogia dell'incarnazione.

E qual è questo modello? Questo è il paradosso del versetto 9. Paolo, come apostolo, come fondatore della comunità, aveva il diritto (L'’esousia) per essere materialmente sostenuto dalla comunità. Lo afferma molto chiaramente in altre lettere (ad esempio, in 1 Corinzi 9). Aveva il diritto di "mangiare" senza "lavorare" (nel senso manuale del termine), perché il suo lavoro era la predicazione. Ma a Tessalonica, di fronte a questo specifico problema di ozio mistico, rinunciato alla sua destra.

Perché? "Per essere per te un modello (Errori di battitura) da imitare.»

Paolo continuò il suo lavoro manuale. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli (Atti 18:3) che era un fabbricante di tende. E non lo faceva part-time. Lo afferma con enfasi: "Con fatica e travaglio, notte e giorno lavoravamo". Era un lavoro estenuante, che si prolungava fino a notte fonda, alla luce di una lampada, dopo giorni di predicazione. Paolo non scherzava al lavoro. Lavorava. Veramente, duramente.

La sua opera ha un duplice significato:

  1. Indipendenza (non essere un peso): Dimostra di non essere un ciarlatano venuto a sfruttare la credulità della gente (una critica comune ai filosofi itineranti dell'epoca). La sua predicazione è libera, il suo amore è disinteressato.
  2. Il modello (L'imitazione): Egli mostra ai Tessalonicesi che il lavoro manuale, il lavoro di questo mondo non è assolutamente incompatibile con la più alta santità e con l'attesa del Signore. Al contrario, è il luogo stesso in cui si vive la fede.

Il cuore del messaggio è dunque questo: l'agitazione (atassiaIl comportamento delle persone "disordinate" turba l'armonia della comunità. L'antidoto è il ritorno alla calma e alla realtà, imitando l'esempio concreto dell'Apostolo, che imita Cristo (1 Cor 11,1).

E qual è la prescrizione finale di Paolo per queste persone irrequiete? "Lasciateli lavorare". in pace (meta hēsychias) per mangiare il pane che avranno guadagnato.» (v. 12). La parola esichia (Calma, tranquillità, pace) è fondamentale. È l'esatto opposto dell'agitazione (periergiaPaul non chiede solo un ritorno alla produzione; chiede un ritorno al pace interiore. Il lavoro Non è una punizione, è la via verso la pacificazione. Ancora la mente febbricitante alla realtà, ordina l'anima, la guarisce dall'ansia (anche dall'ansia spirituale dell'attesa).

Il lavoro Diventa una pratica ascetica, una disciplina spirituale, un atto di fede che dice: «Signore, ti aspetto, ma nel frattempo mi prendo cura del mondo che mi hai affidato e della comunità che mi hai donato».»

«Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Tessalonicesi 3:7-12)

La dignità del lavoro: il lavoro come co-creazione e via di santificazione

Quando Paolo esorta i Tessalonicesi a impegnarsi, non sta semplicemente applicando un cerotto a un problema locale. Sta attingendo, forse senza menzionarlo esplicitamente, a una teologia molto più profonda, quella delle origini: la teologia della Creazione.

Spesso abbiamo una visione distorta del lavoro, ereditata da una lettura veloce di Genesi. Noi crediamo che il lavoro è il conseguenza della Caduta, la punizione di Adamo. Questo è un errore. Rileggiamo il capitolo 2 di Genesi, Prima La caduta: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden per coltivarlo e mantenerlo. » (Gen 2, 15).

Il lavoro Non è una maledizione. È la vocazione originaria dell'umanità. È il segno della nostra dignità. Dio, il Creatore, fa dell'uomo un co-creatore. Le affida il mondo non come un museo da contemplare, ma come un giardino da coltivare, un'opera da perfezionare. Il lavoro, La creatività, nella sua essenza, è partecipazione all'opera creatrice di Dio. È il nostro modo di rispondere al suo "Facciamo l'uomo a nostra immagine". Siamo a sua immagine, tra le altre ragioni, perché siamo, come lui, creatori.

Quindi cosa cambiò la Caduta (Genesi 3)? Non cambiò introdotto il lavoro, Lei ha abisso. Vi introdusse il "dolore", il "sudore della fronte", le spine e i cardi. Il lavoro, Ciò che un tempo era una gioiosa collaborazione con Dio è diventato lavoro, una lotta contro una natura diventata resistente e, spesso, fonte di alienazione e sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Ma Cristo è venuto per redimere Tutto uomo e Tutto realtà, compresa il lavoro. E come? Questo è un punto assolutamente centrale della nostra fede, eppure così spesso dimenticato. Per trent'anni, quasi tutta la sua vita terrena, cosa ha fatto Gesù? Ha lavorato. Non era un monaco ozioso, né un filosofo da salotto, né un agitatore politico. Era il Tektōn, l'artigiano, il falegname di Nazaret (Mc 6, 3).

Questi trent'anni di "vita nascosta" non sono una parentesi, un insignificante "prima". Sono un teologia in azione. Attraverso il suo lavoro quotidiano, l'odore della segatura, la fatica delle sue braccia, la precisione della pialla e la negoziazione con i clienti, il Figlio di Dio santificò il lavoro umano. Ha dimostrato che si può essere pienamente uniti a Dio, essere Dio fatto uomo, in mezzo ai compiti più ordinari, più materiali, più "con i piedi per terra". Il lavoro non è un ostacolo alla santità; è la via ordinaria per raggiungerla.

Quando Paolo, il fabbricante di tende, esorta i Tessalonicesi a "lavorare in silenzio", segue la stessa linea di pensiero. Non chiede loro di "tornare coi piedi per terra" abbandonando la loro spiritualità. Chiede loro di per trovare la loro spiritualità nella terra, in realtà, in il lavoro con le proprie mani. Il lavoro diventa allora una forma di incarnazione della nostra fede.

Pensateci: ogni volta che lavoriamo con attenzione, ci sforziamo di fare un "buon lavoro" e mettiamo la nostra intelligenza e il nostro cuore in un compito (che si tratti di programmare un software, crescere un figlio, cucinare un pasto, gestire un file o pulire un pavimento), compiamo un atto di ordine. Prendiamo parte al caos (una pagina bianca, dati grezzi, una stanza disordinata, fame) e ne mettiamo un po' cosmo (un testo scritto, un'analisi chiara, uno spazio di vita tranquillo, un pasto condiviso). Questo atto di ordinare il mondo è un atto profondamente divino.

Paolo ricorda ai Tessalonicesi che la loro vocazione non è quella di fuggire dal mondo, ma di santificarlo dall'interno. Il lavoro è il primo luogo di questa santificazione. È una pratica ascetica. Ci confronta con i nostri limiti, con la resistenza della realtà; ci esige pazienza, perseveranza, il’umiltà. Ci protegge dall'orgoglio spirituale che consiste nel credere di essere "al di sopra" delle contingenze materiali.

Il lavoro, Nella visione paolina, il lavoro non è quindi solo un mezzo per "guadagnarsi il pane". È un mezzo per "guadagnarsi l'anima", per strutturarla, pacificarla e renderla feconda. Lavorando, l'uomo edifica se stesso a immagine di Cristo artefice.

Il pericolo dell'agitazione: "Occupato senza fare nulla" (Periergazomai)

Entriamo ora nel cuore della patologia diagnosticata da Paolo. Si tratta di una malattia spirituale forse tra le più diffuse del nostro tempo: l'inquietudine sterile.

Paolo usa questo famoso gioco di parole greco nel versetto 11: mēden ergazomenous alla periergazomenous. " Nato lavorando (ergazomai) a niente, ma affaccendarsi (periergazomai) a tutto. »

Il verbo ergazomai (Lavorare) è nobile. Viene da ergone, Il lavoro, il prodotto, il risultato tangibile. È il lavoro ciò che costruisce, ciò che nutre, ciò che produce qualcosa di reale. Il verbo periergazomai (Occuparsi) è dispregiativo. Significa "lavorare". in giro »"(peri-). È essere un "ficcanaso", un tuttofare, una persona irrequieta. È il tipo di irrequietezza che agita molto l'aria, fa molto rumore, ma non produce nulla di buono.

I "disordinati" di Salonicco non erano passivi. Al contrario, erano iperattivi. Ma la loro attività era priva di significato e malsanamente rivolta all'esterno: si intromettevano negli affari altrui, propagavano dottrine febbrili e seminavano discordia. Per loro, l'ozio non era riposo, ma un terreno di gioco per l'ansia. Privi dell'ancora del vero lavoro che appesantisse le loro anime, le loro menti vagavano in tutte le direzioni, travolte dalla febbre dell'imminenza.

Cari amici, questo non ci dice nulla, nel XXI secolo?

Forse viviamo nel più periergazomenoi della storia. Siamo costantemente "impegnati". I nostri telefoni vibrano di notifiche, le nostre caselle di posta traboccano, i nostri calendari sono pieni di "riunioni" e "chiamate". Corriamo da un'"emergenza" all'altra. Siamo orgogliosi di essere "impegnati". L'essere impegnati è diventato un indicatore di status sociale. Se non sei impegnato, non sei importante.

Ma poniamoci la domanda che pone Paolo: in tutto questo trambusto, quanti ergone, Lavoro vero? Quanto "pane" si "guadagna"? Quanto tempo passiamo a "lavorare"? in giro » (rispondere a tutte le email, essere in ogni ciclo, scorrere i social media per "restare informati") e quanto tempo dedichiamo produrre il lavoro in sé (scrivere il rapporto, codificare la funzione, ascoltare veramente il bambino, pregare in silenzio)?

L'agitazione dei Tessalonicesi era di natura escatologica (la fine del mondo). La nostra è spesso di natura tecnologica o sociale (la paura di perdersi qualcosa, la FOMO, la pressione da prestazione). Ma il risultato spirituale è lo stesso: ansia, distrazione e incapacità di essere "in pace" (esichia).

Paolo si oppone radicalmente all'agitazione (periergia) e calma (esichia). L'agitazione è una malattia dell'anima che ha paura del vuoto, paura della realtà, paura del silenzio. Il lavoro, In senso nobile, è il rimedio.

Perché? Perché il VERO il lavoro richiede il presenza. Non puoi scrivere un testo profondo mentre controlli le notifiche. Non puoi creare un bel pezzo di legno mentre pensi a dieci cose contemporaneamente. Non puoi avere una conversazione che guarisca il cuore mentre sei "impegnato". ergone Esige che siamo lì, presenti in ciò che stiamo facendo. Ci ancora al momento presente. Ci costringe a confrontarci con la materia, con la realtà.

Il rimedio di Paolo è sorprendentemente moderno. Egli dice a queste persone ansiose e irrequiete: "Smettete di preoccuparvi di ciò che è al di là di voi (la data del ritorno di Cristo) e di ciò che non vi riguarda (gli affari degli altri). Affrontate un compito. Solo uno. E fatelo. 'Lavorare in pace'".«

È un invito all'ordine interiore. È un invito a ritrovare la strada per tornare a pace attraverso il cammino della realtà. Il lavoro è un incarnazione. Ci impedisce di rifugiarci in spiritualità disincarnate o distrazioni frenetiche. Ci dice: "Il tuo posto è qui. Il tuo dovere è ora. Santificati in questo compito, per quanto umile possa essere".«

Pensiamo al Vangelo. A Marta e Sposato (Luca 10). Marta è quella che è "agitata" (periespato, (parola della stessa famiglia) per il servizio. Sposato è colui che sta "in calma" ai piedi di Gesù. La tradizione monastica dirà che l'obiettivo non è quello di opporre i due, ma di diventare una "Marta dal cuore di Sposato »Vale a dire: agire, lavorare, servire (ergazomai), ma farlo con un'anima unita, pacifica, concentrata sull'essenziale (esichia).

I "disordinati" di Tessalonica sono una tragica parodia di questa sintesi. Non hanno né l'azione di Marta (non servono nessuno e non lavorano) né la contemplazione di Sposato (Sono irrequieti, non in pace.) Sono il peggio di entrambi i mondi. L'appello di Paolo è un invito a riscoprire l'unità dell'essere: che la vostra azione sia pacifica e che la vostra pace sia attiva.

Carità, responsabilità e giustizia: «Non mangi neppure».»

Passiamo ora alla frase più sorprendente e difficile, quella del versetto 10: «Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi».»

Estratta dal contesto, questa frase è una bomba. È stata usata per giustificare i peggiori abusi sociali, per "rompere"« i poveri, rifiutare aiuto a chi è nel bisogno. Questa è una totale e tragica interpretazione errata del pensiero di Paolo e dell'intera rivelazione biblica.

Per comprenderlo, è necessario tenere costantemente a mente tre punti chiave di interpretazione.

Chiave n. 1: Il soggetto non è "colui che non Potere non", ma "colui che non voglio non ". Il testo greco è esplicito: ei tis ou thelē ergazesthai. Thelo significa "volere", "avere la volontà di". Paolo non sta parlando affatto di persone che non può lavoro. Non parla dei malati, degli infermi, delle persone con disabilità, degli anziani, delle vedove con bambini piccoli (che erano l'immagine stessa di povertà nell'antichità), né tantomeno coloro che, nelle nostre società moderne, non riesco a trovare di lavoro nonostante i loro sforzi. La Bibbia (Antico e Nuovo Testamento insieme) ci comanda di sostenere tutte queste persone con radicale generosità. Lo stesso Paolo ha trascorso anni della sua vita organizzando una massiccia campagna di raccolta fondi per i poveri della Chiesa di Gerusalemme! L'amore per i poveri è il criterio stesso del Giudizio Universale (Matteo 25: "Avevo fame e mi avete dato da mangiare"). L'affermazione di Paolo non si applica che a un gruppo molto specifico di persone "disordinate" di Salonicco, persone abili, capaci di lavorare, ma che rifiutato farlo per scelta, in nome di un pretesto teologico imperfetto.

Chiave n. 2: Il contesto è quello di beneficenza basato sulla comunità, non sullo stato sociale. All'epoca non esistevano né la previdenza sociale né l'assicurazione contro la disoccupazione. La sopravvivenza dei più vulnerabili dipendeva interamente dalla koinonia, comunione e carità fraterna all'interno della piccola comunità cristiana. I primi cristiani "condividevano tutto" (Atto 2 e 4). I pasti venivano condivisi e si provvedeva alle necessità delle vedove e degli orfani. La gente "disordinata" di Salonicco stavano abusando di questo sistema. Approfittavano della generosità dei loro fratelli e sorelle che, a loro volta, lavoravano duramente. "Mangiavano il pane altrui senza pagare" (v. 8). Il problema di Paolo non è limitare beneficenza ; è da proteggere. Se la generosità dei lavoratori viene costantemente sfruttata da persone abili che si rifiutano di contribuire, cosa succede? Beneficenza Sta perdendo vigore. I donatori si stanno scoraggiando, diventando cinici. E alla fine, chi sarà penalizzato? VERO poveri. Quelli che non può lavoro (vedove, orfani, i malati) non avrà più nulla, perché i "profittatori spirituali" avranno preso tutto. L'ordine di Paolo è quindi un atto di giustizia sociale interna alla comunità. Protegge i lavoratori dallo sfruttamento e protegge i veri poveri dalla privazione che l'abuso dei "disordinati" rischia di creare.

Chiave n. 3: L'obiettivo non è la punizione, ma la correzione fraterna. «Neppure lui mangi» (v. 10). Significa forse che Paolo sta ordinando di lasciarli morire di fame? Certamente no. È una misura choc, una «pedagogia di conseguenza». Bisogna leggere il resto del capitolo. Paolo dice (vv. 14-15): «Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, denunciatelo; non abbiate rapporti con lui, affinché si vergognasse (ina entrapē). Ma non considerarlo un nemico, avvertilo come un fratello."Questa è la chiave! L'obiettivo è il vergogna (nel senso biblico di "risveglio") che conduce alla conversione. È una misura terapeutica, non una condanna a morte. In termini pratici, "che non mangi" probabilmente significava: "Smettete di invitarlo ai pasti comuni (agape) dove viene a mangiare liberamente i frutti del lavoro altrui. Lasciate che senta, nel suo corpo, le conseguenze del suo rifiuto di partecipare allo sforzo comune". È una forma di "separazione" temporanea ed educativa, per "scuoterlo" e riportarlo alla ragione, "come un fratello".

Da questa prospettiva, questo versetto non è più un duro slogan capitalista. È una regola di profonda saggezza comunitaria. Ci insegna una verità essenziale: beneficenza Responsabilità e cibo non sono in contrapposizione. Sono i due pilastri di una comunità giusta. Il "diritto al cibo" (il diritto alla vita, il diritto alla dignità) è fondamentale. Ma per chi... Potere, Questo diritto è inscindibile dall' dovere contribuire. Il vero amore (il agapeNon è la dipendenza che assolve le persone dalla responsabilità; è l'amore che richiama gli altri alla propria dignità, alla propria responsabilità, alla propria capacità di "guadagnarsi il proprio pane" e, a sua volta, di diventare fonte di donazione per gli altri. Paolo ci invita a una carità intelligente, una carità che dà forza, che non confonde l'amore con l'autocompiacimento e che protegge sempre, prima di tutto, i più vulnerabili.

«Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Tessalonicesi 3:7-12)

L'eco del lavoro: il lavoro nella regola e nella riforma

Le riflessioni di Paolo a Tessalonica hanno profondamente influenzato l'intera tradizione spirituale cristiana. La Chiesa ha costantemente meditato su questo equilibrio tra l'attesa del Paradiso e il lavoro della terra, tra la preghiera (ora) e lavoro (lavoro).

Uno dei più grandi eredi della saggezza paolina è senza dubbio San Benedetto da Norcia, nel VI secolo. Il suo famoso Governate, che ha plasmato la civiltà europea, è una magistrale attuazione di 2 Tessalonicesi 3. Il capitolo 48 della Regola inizia con una frase che sembra essere il commento diretto di Paolo:« Otiositas inimica est animae »"(L'ozio è nemico dell'anima).

Per Benedetto, come per Paolo, l'ozio non è riposo; è un vuoto che cede il posto all'agitazione della mente, al "vagabondaggio del cuore", a ciò che il Padri del deserto la chiamavano accidia (noia spirituale, disgusto per lo sforzo). L'antidoto? Una vita equilibrata, scandita dalla preghiera liturgica (Opus Dei) E il lavoro manuale o intellettuale. Il famoso Ora et Labora.

Per il monaco benedettino, il lavoro non è un "mezzo di sostentamento" (la comunità provvede ai suoi bisogni). È un disciplina spirituale.

  • Lui ancorare il monaco nel’umiltà della realtà, impedendole di librarsi nell'orgoglio spirituale (lo stesso pericolo dei Tessalonicesi).
  • Lui pacifista la mente. Concentrandosi su un compito manuale (giardinaggio, copia di manoscritti, panificazione), l'anima si raccoglie, trova la "calma" (esichia) di cui parla Paolo.
  • Lui costruito la comunità. Il lavoro ciò che ogni persona fa è di beneficio per tutti. È l'espressione concreta dell' carità fraterna e interdipendenza.

Più tardi, il Riforma protestante, in particolare con Martin Lutero e Giovanni Calvino, portarono un'altra rivoluzione nella teologia del lavoro, seguendo ancora le orme di Paolo. Svilupparono la nozione di "vocazione" (in tedesco, Beruf, che significa sia "professione" che "vocazione"). Contro una visione medievale che tendeva a spiritualizzare eccessivamente la vita monastica o sacerdotale (la "vita perfetta") a scapito della vita secolare, i Riformatori affermarono che Tutto Il lavoro onesto è una "vocazione", una chiamata di Dio.

Il fornaio che prepara il buon pane, la madre che cresce i figli, il magistrato che amministra la giustizia, il contadino che ara il suo campo… tutti svolgono un servizio divino, un «sacerdozio» nel mondo. Non c’è più gerarchia tra lo «spirituale» e il «temporale». Il mondo intero diventa il luogo dell’incontro con Dio, e il lavoro è il mezzo preferito. È una straordinaria rivalutazione della vita ordinaria, una santificazione del quotidiano, che trae linfa vitale dall'esempio di Cristo falegname e di Paolo fabbricante di tende.

Infine, più vicino a casa, il dottrina sociale della Chiesa cattolica ha sviluppato questa idea a lungo. In encicliche come Rerum Novarum (Leone XIII, 1891) o, in modo sorprendente, Laborem Exercens (Giovanni Paolo II, ( , 1981), la Chiesa afferma l'eminente dignità del lavoro. Giovanni Paolo II ha scritto che il lavoro è "una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, dell'intera questione sociale". Ci ricorda che il lavoro è "per l'uomo" e non "l'uomo per il lavoro »Egli difende la "priorità del lavoro sul capitale" e il diritto a un giusto salario. Questa tradizione, mentre combatte l'alienazione e le ingiustizie del mondo del lavoro, ci ricorda costantemente, con Paolo, che il lavoro è via di realizzazione per l'umanità, partecipazione all'opera di Dio e servizio alla comunità.

Da Paolo a Benedetto, da Lutero a Giovanni Paolo II, Emerge un filo conduttore: il lavoro Non è un'opzione, né una maledizione, né un idolo. È un cammino verso la santità, un luogo di pace, un atto di giustizia e un servizio d'amore.

Ancorare la propria anima alla realtà

Come possiamo far risuonare questo insegnamento di Paolo nella nostra vita oggi? Come possiamo passare dalla teoria alla pratica, affinché il nostro lavoro (o la sua assenza, o la nostra irrequietezza) diventi un luogo di crescita spirituale? Ecco alcuni semplici suggerimenti da provare "in pace e tranquillità".

  1. Preghiera del mattino (L'offerta di Ergon) : All'inizio della giornata, prenditi trenta secondi. Non chiedere solo "il coraggio di superare tutto". Offri la tua giornata lavorativa. Offri i tuoi compiti futuri, i tuoi incontri, le tue difficoltà. Chiedi la grazia di viverli non come una persona "impegnata".periergazomenos), ma come "artigiano" (ergazomenos), che cerca di compiere un lavoro buono e pacifico, al servizio degli altri e per la gloria di Dio.
  2. L'ancora della realtà (L'antidoto alla’Atassia) : Quando ti senti scivolare nell'agitazione, nell'ansia e nella distrazione (notifiche, mille pensieri): fermati. Respira. E compi un'azione molto semplice, molto concreta, consapevolmente. Metti via un fascicolo sulla scrivania. Lava una tazza. Guarda fuori dalla finestra per un minuto. Usa questo micro-compito come un'ancora, per riportare la tua mente al presente, "alla calma" (esichia) ciò che Paolo sta chiedendo.
  3. Grace Revisited (Mangiare il proprio pane): Quando mangi, che si tratti di un panino veloce o di un pasto in famiglia, prenditi un momento per essere grato. Ringrazia per il pasto. Ma collegalo, come Paolo, al lavoro. Ringrazia per il lavoro (il tuo, o quello di qualcun altro) che ha reso possibile questo pasto. Se lavori, riconosci la dignità di "mangiare il pane che hai guadagnato". Se non puoi lavorare, ricevi questo pane come frutto della solidarietà (il "lavoro" dell'amore per gli altri), unendoti a loro nella preghiera.
  4. Agitazione perspicace: Nel mezzo di un compito, chiediti: "Sono attualmente lavorare o da mefare Sono concentrato sul lavoro da svolgere o sto solo sprecando tempo per darmi l'illusione di essere impegnato? Le mie azioni producono ordine o disordine?
  5. Il servizio nascosto: Identifica una persona la cui il lavoro, Spesso invisibile, questo lavoro ti permette di vivere o di svolgere il tuo lavoro (addetto alle pulizie, supporto informatico, assistente amministrativo, il tuo coniuge che gestisce la casa, ecc.). Prenditi un momento per riconoscere la dignità di questo lavoro e, se possibile, esprimi la tua gratitudine. È riconoscere il "lavoro" degli altri che ti permette di "mangiare".
  6. Beneficenza Appena : Esamina il tuo modo di donare (il tuo tempo, i tuoi soldi). È giusto? Aiuta i veri poveri (coloro che non Potere (non)? Lei è dà potere coloro che Potere Mi sto esercitando? beneficenza o per finanziare "i disordini"? È una domanda difficile, ma essenziale per comprendere Paolo.

«Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Tessalonicesi 3:7-12)

La rivoluzione "calma"«

Siamo partiti da una frase che ci è sembrata un muro, un giudizio freddo: «Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi». E, rimettendola nel suo contesto, leggendola con Paolo, nella bottega di Cristo falegname e sotto lo sguardo dei monaci al lavoro, abbiamo scoperto un paesaggio immenso.

No, Paolo non santifica il lavoro basato sulla prestazione, né lo sfruttamento, né la durezza verso i poveri. È esattamente il contrario. Ci sta chiamando a una rivoluzione. La rivoluzione del dignità Il nostro lavoro, qualunque esso sia, è il luogo in cui partecipiamo all'opera di Dio. La rivoluzione del pace Il nostro lavoro è l'antidoto all'agitazione frenetica delle nostre anime, la via per trovare la "calma" ancorandoci alla realtà. La rivoluzione del giustizia Il nostro lavoro è espressione di solidarietà, un modo per "guadagnarci il pane" per non essere di peso agli altri e per proteggere beneficenza destinati ai più vulnerabili.

Il messaggio di 2 Tessalonicesi 3 è un invito a smettere di essere "occupati" spiritualmente o mondanamente. È un invito a diventare operatori di pace nel tessuto stesso della nostra vita quotidiana.

Quindi, la prossima volta che senti questa frase, non pensare a un giudice, ma a un fratello, Paolo, che si rivolge a te, stanco del suo lavoro di fabbricante di tende, e ti dice affettuosamente: "Amico mio, non agitarti. Non perderti nelle nuvole o nelle distrazioni. Prendi la tua giusta quota di realtà. Lavora. Fallo 'in pace'. È lì che troverai la tua dignità, è lì che servirai i tuoi fratelli, ed è lì che, nel pane guadagnato e condiviso, troverai il Signore".«

Alcune linee guida

  • Lettura : Rileggi il brano parallelo in 1 Tessalonicesi 4:11-12: «Fate in modo di vivere in pace, di occuparvi dei fatti vostri, di lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato».»
  • Discernimento: Identificazione di una "agitazione sterile" (periergia) nella tua vita (pettegolezzi, un dipendenza ai social media, un'ansia) e contrastarlo con il "vero lavoro" (ergone) concreto (un servizio, un compito specifico, un momento di preghiera silenziosa).
  • Giustizia: Durante il tuo prossimo atto di carità, chiediti: come può questa donazione essere una leva per l' dignità e il responsabilità della persona aiutata e non solo assistenza?
  • Consapevolezza : Eseguire un compito manuale (cucinare, fare giardinaggio, pulire, fare bricolage) con consapevolezza, vivendolo non come un compito ingrato, ma come un atto di ordine e pacificazione dell'anima.
  • Formazione: Per saperne di più, leggi alcuni passaggi dell'enciclica. Laborem Exercens Di Giovanni Paolo II, che offre una magnifica sintesi della teologia cristiana del lavoro.

Riferimenti

  • Testi biblici primari:
    • 2 Tessalonicesi, capitolo 3
    • 1 Tessalonicesi, capitolo 4
    • Genesi, capitoli 2 e 3
    • Atti degli Apostoli, Capitoli 17 e 18
    • 1 Corinzi, capitolo 9
  • Tradizione e Magistero:
  • Opere teologiche e spirituali:
    • Marie-Dominique Chenu, OP, Verso una teologia del lavoro, Seuil. (Un classico sulla visione cristiana del lavoro).
    • Giacomo Filippo, Pace interno, Pubblicato da Éditions des Béatitudes. (Un'eccellente riflessione moderna sulla lotta contro il tumulto interiore).

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